Andiamo a incominciare

Basta fare un giro al mercato.
Già gli occhi si riempiono di colori, colori di pomodori e peperoni, caldi, rossi e carnosi come certe labbra che si offrono senza vergogna, ma anche caldi come il giallo di pani appena sfornati, sotto la cui crosta si indovina una tenerezza nuova.
E la verdura? ci offre tutte le tonalità dei verdi, che raccontano sommessamente di prati e di orti, innaffiati da uomini tranquilli in maniche di camicia, durante silenziosi tramonti.
Come si fa a non amare il cibo? Semplice, basta non amare gli umani.

martedì 31 gennaio 2012

I libri di cucina

Ho aggiornato con gli ultimissimi acquisti, in verde, l'elenco dei miei libri di cucina, che vedo spesso consultato.
Sappiate che posso prestare, regalare, spedire.........

lunedì 30 gennaio 2012

Frittata con i broccoli

Due ricettine ultrarapide, per non perdere l'abitudine di scrivere quello che cucino e che mi piace. La prima ricettina è mutuata da una quiche che ho fatto nel passato, di grande soddisfazione.
Si tratta di comperarsi un po' di broccoli e di farli a pezzettini abbastanza piccoli da poter essere cotti nel cestello a vapore in pochi minuti. In questi minuti farai a cubetti una fetta di speck spessa 5-10 millimetri che matterai in padella a prendere il colore. Poi la levi e nella stessa padella rosoli una mezza cipolla, un cucchiaio di olio evo e i broccoli.
Quando tutto è pronto rompi le uova, le sbatti, le sali, ci metti un po' di ricotta setacciata e mescoli tutto assieme.
Termini la frittata alla solita maniera.
Più veloce di così........




Filetti di triglie? No.........


Oggi si mette prima la foto, che è carina, e sembra una montagnola di filetti di triglie saltati in padella.

Invece no.
Trattasi del solito finocchio, saltato in padella con l'olio e il peperoncino. Quando ha incominciato a prendere il colore ci ho versato dentro tre cucchiai del mio aceto, che è il frutto di un regalo del mio amico Walter, che ultimamente si è presentato con un barattolino con dentro la madre, anzi la Muë', scritto in genovese.
Questo aceto che mi sono preparato ha il grande pregio di non essere aspro. Per cui ho terminato la cottura come al solito, incoperchiato e a fuoco dolce.
Per soprammercato mi sono anche mangiato la barba del finocchio, perchè sono goloso, anzi "leccardon".


Per un contorno "diverso".





giovedì 26 gennaio 2012

KOS - 2


Achiropìta scendeva lentamente la stradina che dal resort portava al porto vecchio, lastricata di piccoli ciottoli bianchi, resi lisci dal tempo. Camminava lentamente, misurando un passo dopo l'altro, seguendo con la mente certi suoi disegni che indovinava nelle linee fra i sassi, i margini dei quali non voleva assolutamente calpestare.
Questo la aiutava a svuotare la mente completamente, così come quando lavava montagne di piatti, e quella mattina anche a concentrarsi su un unico pensiero.
Si domandava il senso di quello che era successo, e soprattutto il fine, ma non riusciva a trovare risposta. Era profondamente impaurita dal fatto di essersi abbandonata completamente, anche se solo per qualche ora: aveva ancora addosso tutte le cicatrici del passato, quando, sempre sbagliando, si era immaginata di avere finalmente trovato la sua mezza mela, e aveva preso certe sonorissime facciate il cui rimbombo le era ancora nelle orecchie. Tutte quelle cicatrici non sarebbero andate più via, e la più recente addirittura colava ancora alcune gocce di sangue.
Non se la sentiva proprio di rimettersi in gioco, troppo era stato il dolore e poca , e breve, la gioia. Fra l'altro c'era tutto il resto, i figli soprattutto, quel miserabile ma necessario lavoro e quel meraviglioso sogno che accarezzava ogni sera prima di addormentarsi, quello di un forno tutto suo.
D'altro canto quell'uomo era riuscito ad incantarla. Non solo la sua vicinanza era piacevole da morire, e le storie che raccontava erano magicamente trasfigurate nelle sue parole, ma essergli accanto le dava tranquillità e fiducia nel futuro, sensazioni che non aveva fino ad allora conosciuto. Mai le era successo di cedere al primo appuntamento, anche se spesso era stata lei a decidere l'intimità. Ma iersera tutto era stato diverso.
Camminava e pensava, assorta, fino a che un ciottolo più sporgente degli altri non la fece scivolare, cadendo per fortuna sulla parte più morbida e strappandole un piccolo sorriso.
Decise improvvisamente che sarebbe andata da Maia. C'era solo qualche rampa di scale da fare e poi sarebbe arrivata.
Maia era la donna con il terzo occhio, e più di una volta l'aveva aiutata a capire cosa aveva dentro il cuore. Di lei nessuno sapeva nulla se non il posto dove abitava, che era casa e studio a un tempo, e anche punto di appoggio per gatti randagi bisognosi di cure. Maia era una donna senza età, con il viso come quello delle Sibille della cappella Sistina, solcato dalla vita, ma principalmente dai racconti delle vite degli altri. Faceva le carte, solo agli amici, e barattava la sua conoscenza del futuro per un po' di cibo per gatti. Ma soprattutto aveva le parole giuste per spingerti a percorrere il tuo destino. Anche lei faceva parte del mito, del resto come tutto in quell'isola della Grecia.
Achiropìta entrò e subito fu prese alla gola da un odore vagamente dolciastro, quell'odore della carne troppo frollata, quella che Maia dava ai suoi gatti.
“Ti aspettavo”, si sentì dire da dietro una tenda, ed ebbe subito un tuffo al cuore. Era tanto che non andava da Maia e già questo era per lei un segno che qualcosa sarebbe successo, così come era la più lampante dimostrazione che Maia aveva davvero il terzo occhio.
“Come stai, piccola mia?” Maia le venne incontro a braccia aperte, con una gatta dolcemente agganciata alle sue spalle. “Ciao Maia, sai che quando vengo da te è perchè non sto bene”, “lo so bene, siediti che ci beviamo un ouzo, quello che mi mandano da Lesbo, poi mi racconterai”.
Intanto che beveva lucidava le idee su quell'uomo e su quello che avrebbe raccontato, e per un attimo si domandò se aveva fatto bene ad andare lì, o se non fosse stato meglio non pensarci più, da subito. Ma era seduta lì e Maia non era solo la donna dal terzo occhio, era per lei quasi una madre, e le voleva un bene dell'anima. Achiropìta non aveva conosciuto la mamma, fuggita subito dopo il parto, e crescere solo con il padre era stato difficile, anche se c'era in qualche modo riuscita, ma non come come avrebbe voluto che fosse.
Incominciò allora a raccontare di quell'uomo, del loro primo incontro, e di come il suo parlare, forse un po' troppo da signore, l'avesse colpita. Non l'aveva facilmente dimenticato e nei giorni successivi l'aveva guardato da lontano, per capire che tipo potesse essere, senza peraltro capire, perchè sul lavoro era efficiente e irreprensibile. Si capiva che cucinava animato da una grande passione, e tutte le cose che preparava, anche lei era riuscita ad assaggiare qualcosa, avevano il sapore dell'amore che ci aveva messo nel cucinarle. Anche nel rapporto con i suoi sottoposti era certamente strano: vi erano giorni in cui sembrava che fossero amiconi e le battute e le risate si sprecavano, vi erano poi dei giorni in cui la luna sembrava avere modificato irrimediabilmente il suo atteggiamento, immotivatamente immusonito e triste. Terribile questa luna, che anche a lei faceva spesso l'effetto di svegliarsi una mattina con una tristezza salata dentro il cuore di cui non riusciva a liberarsi.
Le raccontò anche di come fosse rimasta sorpresa, perchè non se lo sarebbe mai aspettato, quando lui le chiese di prendere l'aperitivo insieme e di come, per proteggersi, gli avesse detto che non poteva stare oltre le sette, quando invece non aveva niente da fare. E di come era stata bene, su quella seggiola traballante, e soprattutto di come era stato facile aprirsi con lui e parlare liberamente, cosa che non succedeva da troppo tempo. La sensazione di leggerezza l'aveva aiutata a decidere, e quando lui le aveva cinto la vita con il braccio aveva avuto un sussulto di gioia. Non dimenticò di dire che avevano passato la notte insieme, ma si rese conto che Maia lo sapeva già.
Maia la guardava raccontare e gesticolare animatamente, e quel pulcino dalla testa nera sempre arruffata le faceva, ogni volta che la incontrava, grande tenerezza. Le voleva bene e non voleva proprio che soffrisse ancora: sapeva però che Achiropìta aveva la testa dura più del marmo, e che se avesse deciso di iniziare una nuova storia nulla e nessuno l'avrebbe distolta, anche a costo di andare incontro alla propria rovina. Quest'uomo poi la incuriosiva: mai Achiropìta era stata così precisa e entusiasta nel descriverle qualcuno.
Capì che avrebbe dovuto, in caso di cattive notizie, aggiustare quello che le avrebbero detto le carte.
Sparecchiato il tavolino incominciò a mescolare le carte, puntigliosamente come al solito, dedicando a quell'attività tutto il tempo che riteneva necessario, con lentezza, sempre con la stessa sequenza di movimenti. Quel mazzo di tarocchi, ingiallito e quasi ammuffito, le era stato regalato da una zingara serba, di ritorno dalla festa delle Saintes Maries de la Mer, che aveva intuito che entrambe condividevano il terzo occhio.
Non era semplice fare le carte, soprattutto quando in esse leggeva cose così brutte da farla stare male: infatti iniziare a farle ad Achiropìta le procurò un doloroso crampo allo stomaco.
Ciò non ostante incominciò, anche perchè la donna era curiosa e ansiosa.
Anche se era venerdì, giorno perfetto per quell'attività, la lettura delle carte si rivelò da subito difficile. E' ovvio che Maia non avrebbe mai potuto dire “E' l'uomo giusto” ma Achiropìta si sarebbe almeno aspettata un piccolo incoraggiamento. Non ottenne neppure quello. Anzi la carta dell'appeso fu quella che comparve più frequentemente, dimostrando in un certo qual modo che per capire l'essenza di una relazione bisogna guardarla a rovescio. Achiropìta sperava ardentemente, in cuor suo, di vedere la carta degli amanti, che non volle invece uscire. Gli occhi le si stavano allagando e capiva solo a tratti la voce di Maia, che le diceva che le cose erano ancora ferme, e che le carte non riuscivano a penetrare nei loro cuori.
Uscì salutando in fretta, profondamente delusa, e trovandosi al punto di partenza. Erano le dieci e e si sentiva di schifo. Capì che non era solo la delusione, era anche fame.
Decise di andare da Irene, una sua amica, disordinata dell'amore come lei, con la quale avrebbe potuto confidarsi.
La trovò nel suo kafenion dalle porte dipinte di azzurro, con le fotografie ingiallite dei parenti appese alle pareti alternate a immagini sacre. C'erano anche due vecchi seduti ai tavoli, così immobili da sembrare impietriti dall'età.
Irene era stata una donna bellissima, ardente nell'espressione, con due lanterne azzurre splendenti al posto degli occhi, incorniciate da una capigliatura biondissima, che tradiva piuttosto un'origine nordica, o meglio normanna. I disagi della vita e le scelte sbagliate l'avevano fatta invecchiare prima del dovuto, sotto il biondo il grigio si indovinava soltanto, e la prolungata esposizione al sole giustificava e mascherava i solchi profondi del viso. Ma restava una donna dolcissima, specie per Achiropìta. Si erano conosciute da pochi anni, casualmente, mentre facevano la spesa al mercato, ed erano diventate subito amiche. Non potevano vedersi spesso ma fra loro si era creata un'intimità profonda, e alla prima occhiata Irene capì che la sua amica aveva un problema. Dopo averla abbracciata e ricambiato il suo bacio la fece sedere comoda e le portò un caffè e un piattino di melomakàrona, ben sapendo quanto lei fosse golosa di quei dolcetti.
Dopo aver divorato i primi due dolci incominciò a raccontare, per la seconda volta quella mattina, la sua ultima avventura. Irene sorrideva, e si vedeva chiaramente che era contenta per lei.
“Segui il tuo cuore, Chiropì”, le disse, “cerca di rubare tutta la felicità che puoi, datti tutta e prendi tutto. Non lasciare niente di tutto ciò che puoi prendere e non avrai rimpianti. Se quest'uomo è veramente come dici ti prego di non farmelo neanche conoscere, ché te lo ruberei”. E rise forte, facendo sussultare le due statue di pietra.
Irene aveva capito tutto, e Achiropìta fu confermata, se mai ve ne fosse stato bisogno, nella sua intenzione di non lasciarsi scappare quella che riteneva, a torto o a ragione, l'ultima,e la migliore occasione.
Non aveva più paura.



domenica 22 gennaio 2012

Marco Polo 5 - patate al gratin

Lo sanno tutti che all'istituto alberghiero si cucinano (e si mangiano) tante patate, ma anche in certe pensioni.....
comunque sia le patate sono proprio buone, e fatte così ancor più. Per me è stata una piccola scoperta, e non mancheranno di certo nei miei futuri menù. Chapeau al mio insegnante di cucina.
Mi scuso se la ricetta non è forse delle più originali ma non devo fare l'originale a tutti i costi, devo mettere ricette gustose e non troppo difficili.
Fai le patate a fette spesse un paio di centimetri e le metti a bollire. Quando saranno belle morbide le disponi sulla tua pirofila, una vicina all'altra. Ti sei già comperato una fetta di prosciutto cotto un po' spessa, e con il suo giusto grasso: la taglierai a cubetti e, per aggiungere sapore a sapore, la farai leggermente rosolare in padella, appena quel che basta perchè si veda il marroncino dell'avvenuta reazione di Maillard. Con il prosciutto ti sei comperato anche analoga fetta di Emmenthal o di formaggio a pasta dura a tuo piacimento, e anch'essa hai ridotto a cubettini.
Ti serve ancora un mezzo litro di besciamella che te la puoi agevolmente preparare mentre scaldi il forno a 180 °C.
Quindi sulle patate distribuisci i due tipi di cubetti e versi la besciamella, spargendola bene dappertutto con il cucchiaio. Ti manca una spolverata di pane grattuggiato e qualche fiocchetto di burro (tanto per non perdere l'abitudine).
La tirerai fuori dal forno quando avrà preso il colore.





L'unica domanda è: antipasto, primo, secondo, piatto unico?


Un minestrone "diverso"

Oggi pomeriggio mi sono rimesso dietro ai ravioli di pesce. Avevo il mio ripieno surgelato, l'esperienza dell'altra volta e domani mattina mi farò un qualche sughetto di pesce. Non mi sono venuti male e non si sono appiccicati. Come al solito la dose della pasta era troppa e non potevo farne mille, anche se domani saremo in quattro. La prossima volta basteranno due uova e 250 g di farina.

Con la pasta avanzata mi sono fatto certe fettuccine al coltello veramente spettacolose. Ho cercato di usarle in maniera creativa. Avevo già preparato il minestrone, che dopo le feste è sempre un'ottima cena, non mi vergogno a dirlo con la busta surgelata, a cui faccio qualche integrazione. Per il solito motivo che cerco di fare nove cose insieme mi sono sbagliato con l'acqua, dimodochè quando è stato pronto era proprio asciutto asciutto. Allora le fettuccine le ho bollite a parte, poi le ho sbattute nel minestrone assieme a un paio di cucchiai di acqua della pentola. Un filo d'olio e il parmigiano.
So di mangiare proprio bene!


domenica 15 gennaio 2012

Aspic casereccio

L'aspic è una delle ricette più gettonate del mio blog. Per me è un piccolo mistero, nel senso che non penso che sia una preparazione di grandi qualità. Buono è buono, ci mancherebbe, come tutte le cose che faccio.....

Mi arriva a questo proposito, insieme ai miei cugini, un pacco di squisitezze dalla Calabria. Non mi faccio scappare l'occasione. Ho pensato questo aspic e l'ho messo in pratica: ed è buonissimo. Antipasto, secondo, stuzzichino, è proprio tutto. Mi dispiace di averne fatto così poco, ma rimedierò.

Un paio di etti di soppressata calabrese, quella rossa di peperoncino, fatta a cubettini, e un paio di etti di provola silana, bella fresca che sa di latte, anche lei a cubetti, sono stati gli ingredienti di base. Del resto nel vecchio aspic c'erano (banalmente) prosciutto e formaggio. Dovevo quindi studiare qualcosa da aggiungere, che non fossero i (soliti anche se buoni) cetriolini.
Ci ho pensato tre giorni e ho fatto anche delle prove "sul campo". Ho deciso che ci sarebbe potuto stare bene del sedano. Stanotte ho avuto anche l'illuminazione del quarto ingrediente, le olive, che però ho deciso nere taggiasche, già snocciolate, e comprate dalla mia migliore fornitrice.

Come sempre, detto fatto. Ieri pomeriggio ho confezionato il mio "nuovo" aspic, con un bel litrozzo di gelatina aromatizzata all'aceto bianco, quella in cubetti.
Oggi l'ho tirato fuori dal frigo, l'ho fotografato e me lo sono spazzolato....







Very good, sarebbe piaciuto anche ai miei amici Michele e Achiropìta, che voi conoscete.......

sabato 14 gennaio 2012

Risotto con la salsiccia

Il sabato è un giorno più rilassato, puoi pensare alle cose da fare con più distacco, e fra queste c'è anche il cucinare, che non diventa la solita corsa contro il tempo.
Motivo per cui, oltre a riflettere alle ricette già promesse, mi è balzata agli occhi l'immagine di un risottino che avrei potuto tranquillamente produrre, senza bisogno di tante ricerche, sia sullo stampato sia sull'informatico.
Un paio di etti di salsiccia sgranata sono finiti in un padellino, a rosolare e a cedere un po' di grasso, dopodichè un mezzo bicchiere di vino bianco li ha portati a cottura.


Ho deciso che con la salsiccia ci sarebbe stata bene la trevigiana tardiva, un cespo. Una cipolla di Montoro, come al solito soffritta a parte. Il Vialone nano che mi era rimasto in casa l'ho finito. Non dico il peso perchè ho vergogna.
La trevigiana l'ho tagliata trasversalmente in tre parti, perché sono, dal basso verso l'alto, di durezza diversa. Per cui saltarle in padella con un filo d'olio tutte e tre insieme mi è parso poco furbo. Ecco come ho tagliato la trevigiana e i relativi tempi di cottura:




Naturalmente il tempo totale, cioè quello della parte più dura, che viene messa in padella subito, è solo di cinque minuti.

















Ed ecco come mi è venuta:







A questo punto ho potuto incomiciare la cottura, al solito modo che non sto a ripetere, del risotto.
Nota bene: avevo in freezer un certo contenitore con un litro e mezzo circa di buon brodo, ma non ricordo più di cosa..... sbattendolo nel microonde a scongelare la parte grassa affiora molto agevolmente e levarla è stato del tutto semplice. Levi grasso ma non sapore.

E allora il mio risottino è andato, con la salsiccia buttata dentro a metà cottura e la trevigiana a due minuti dalla fine. Un po' di burro per mantecare. Due minuti di attesa, quelli che ti servono per apparecchiare.
Dato che l'imperativo del risotto era: "sgrassare", ci ho bevuto sopra un po' di bollicine, Berlucchi Franciacorta '61, rosè, regalo di chi mi vuole bene.

Voto della famiglia (richiesto ma non indotto): 9/10 e 9/10. Tanto mi può bastare.


venerdì 13 gennaio 2012

Minestra d'orzo altoatesina

Eccolo, il primo post di cucina del 2012. Lo so, è un po' tardi ma fra lavoro e scuola solo iersera ho trovato il momento giusto per giocare un po' ai pentolini.
Non ho voluto a ragion veduta cercare la ricetta su internet, principalmente perchè non ne ho avuto il tempo, ma solo sui miei libri, e quella del Guarnaschelli mi è sembrata la più interessante.
La minestra di orzo ha come ingrediente particolare lo speck, fatto a cubetti: cercate quindi per cortesia di comperare il migliore che trovate. Lo speck, per chi non lo sapesse, è quel prosciutto crudo leggermente affumicato tipico dell'Italia nordorientale. Può essere altoatesino (coscia disossata, aromatizzata al ginepro e affumicata a freddo e stagionato da 5 a 7 mesi) ma può essere anche quello di Sauris (UD), salato a secco, affumicato con legna più resinosa e stagionato un po' meno. Il bello dello speck è la delicatezza dell'affumicatura. Se poi vi dovesse piacere un più pronunciato sapore affumicato nulla vieta che aggiungiate anche un po' di bacon.

Dato che la verdura è l'ingrediente principale del piatto, e lo speck poteva essere un'aggiunta di un avanzo di un giorno di festa, non ho fatto il soffritto, che comunque porterebbe via un po' di sapore ai cubetti, che invece devono cederlo solo quando sono in bocca.
Quindi nella pentola, con tre litri d'acqua circa, ho buttato: due spicchi d'aglio incamiciati, una grossa cipolla di Montoro, un pugno di prezzemolo tritato, tre carotine, un porro, due grosse patate, tre coste di sedano, tutto fatto a fettine o a pezzetti piccoli. Anche lo speck a cubetti. Mi sono dovuto aiutare con un po' di dado di carne, anche esso comperato in Trentino, in giusta dose per tre litri di acqua.  Non ho usato la pentola di terracotta perchè non ne avevo una così grossa, se riducete le dosi la pentola di terracotta sarà perfetta. Quando il "minestrone" ha preso il bollo l'ho fatto andare una decina di minuti e poi ho aggiunto l'orzo perlato, 450 grammi, e ho fatto semplicemente proseguire la cottura per 40 minuti, durante i quali l'orzo è gonfiato e ha assorbito l'acqua, diventando bello morbido.
Se vorrai nel piatto potrai aggiungere un filo di olio e un po' di parmigiano, ma è già buonissima così.
Se poi ne fai tanta tanta o tantissima ti durerà svariati giorni.
Eccola:



N.B. prossime ricette: un aspic un po' particolare, e il pandolce alla genovese. E naturalmente il secondo round dei ravioli di pesce.
Stay tuned.
euge

sabato 7 gennaio 2012

KOS


Ecco, per tutti i miei lettori, il primo post del nuovo anno, che non è di cucina. 
L'ha scritto il mio alter ego, che a torto si ritiene un letterato, sia pur incompreso: l'ha "covato" per qualche mese e l'occasione della vacanza di fine anno gli ha fornito quella mezza giornata di solitudine necessaria per  lucidare le idee, sedersi davanti alla tastiera e iniziare a raccontare, con amore, naturalmente....

"Era stata molto dura ottenere un posto di capopartita in quel resort dell'isola di Kos. C'era riuscito tramite quel suo amico, Aldo, a cui, nella vita precedente, aveva fatto dei piccoli favori, tutti tesi a confermare una grande amicizia, e che al momento buono era stata parimenti ricambiata.
Ciononostante aveva dovuto superare una selezione abbastanza dura, motivo di stress: non era più un ragazzo, e questo era senza dubbio un handicap rispetto a certi aitanti giovanotti, bravini, per carità, ma tanto look e poca sostanza, specie in cucina.
Aveva presentato il suo curriculum, peraltro discreto, e aveva dovuto impegnarsi per un periodo di lavoro piuttosto lungo.
Solo, in quell'isola del Dodecaneso, sia pur a quattro kilometri dalla costa turca, non era ancora certo di avere fatto la scelta giusta.
Non era stata una fuga, del resto non aveva legami, aveva un buon lavoro che gli forniva uno stipendio di tutto rispetto e qualche microsoddisfazione ma la cucina era stata troppo esigente: gli aveva chiesto di dedicarsi solo a Lei. Anche se lasciare tutto gli aveva procurato grande paura il desiderio di cambiare vita, e di fare “davvero” il cuoco, aveva finalmente prevalso. 
Tante erano che cose che aveva dovuto lasciare, e l'andare a stare in un'isola l'aveva anche obbligato a scegliere, con grande precisione, ciò che era veramente necessario portarsi dietro, e lasciarsi dietro orpelli di varia entità e natura.
Del resto l'isola era incantevole, e presto ogni nostalgia si sciolse in quel clima ricco di natura e di storia.

Il suo Chef, come tutti gli Chef che aveva conosciuto, era assillato dalla paura di perdere il potere, quel piccolo potere che ha ogni Chef, il potere di comandare un certo numero di persone, e il suo comportamento era più dettato dalla paura dell'insubordinazione che dal desiderio di costruire un squadra, una squadra che funzionasse come quegli orologi svizzeri che una volta lo stato italiano dava in dotazione ai capistazione.
Ma Michele lo aveva già ben inquadrato, motivo per cui il suo atteggiamento era stato di puro servilismo, quello che del resto era a lui richiesto.
Gli era stata affidato il ruolo di chef poissonier, che, visto che il resort era in un'isola, era comunque un ruolo di grande impegno e responsabilità: si sarebbe visto nel volgere dei giorni come sarebbe andata, ma lui non aveva nessuna paura: sapeva come cavarsela.
La cucina non era niente male, attrezzata piuttosto bene e con una splendida macchina di cottura a induzione. Anche la brigata era stata una piacevole sorpresa, tutti colleghi e colleghe più giovani di lui ma aperti e disponibili, che lo avevano accolto non come un vecchietto ma come un fratello maggiore, e questo era stato il suo più bel regalo di arrivo.
Nella sua partita aveva due commis di venti e di venticinque anni, due giovanotti quasi belli come i bronzi di Riace, Gheorghiòs e Nicòlaos, disponibili e volenterosissimi ma impreparati a decidere qualsiasi cosa in prima persona. Li avrebbe addestrati lui, che non si preoccupassero.
Anche la sua sistemazione era buona. Aveva ben capito che non poteva aspettarsi una terrazza sul mare ma comunque la sua camera non era troppo piccola, e la cosa che a lui interessava di più, il wi-fi, era perfetto: grande velocità, 54 Mbps. Era la sua vera finestra sul mondo, vedere senza essere visti, parlarsi senza toccarsi, non dover chiedere il permesso a nessuno.

Scese giù per il servizio della sera. Aveva da preparare “soltanto” 330 cocktail di gamberi e 120 aragoste alla catalana, ma non era il caso di preoccuparsi: la struttura e il personale che aveva dietro di sé avrebbero garantito un perfetto risultato. Del resto quanto volte aveva allestito pranzi, per amici e non, completamente da solo, anche per una trentina di persone. Era solo una questione di organizzazione. Andò a vedere i crostacei: erano davvero molto belli e i suoi cocktail sarebbero stati perfetti. Affidò ai due ragazzi i compiti da eseguire e la sequenza con cui farli e iniziò a guardarsi intorno.
Erano solo quarantotto ore che era lì ma sentiva salire un antico desiderio.

Adocchiò, nella folla della brigata, una donna dai lunghi capelli corvini, da tempo non pettinati, e dagli occhi altrettanto neri, così neri da non potervi distinguere la pupilla dall'iride, dall'espressione aggressiva, non più giovanissima ma di età comunque indefinibile, forse sulla quarantina, forse meno. Gli sembrò alta quasi come lui, ma i capelli probabilmente lo ingannavano. La divisa e il lavoro che stava facendo raccontavano il suo ruolo, quello di plongeuse, il più faticoso.
Sulle prime non capì bene se fosse una “bella” donna o solo una donna “interessante”: le braccia gli ricordavano un po' la Madonna del Tondo Doni ma la vita era aggraziata, sfumante in due fianchi di tutto rispetto. Il seno, non piccolo, non era per niente pendulo, e lasciava immaginare due capezzoli fieramente rivolti in avanti.
Chissà cosa c'era dietro e cosa dentro quella donna, che emanava un'animalità incredibile, fiutabile a lunga distanza.
Con la scusa di controllare come lavoravano i ragazzi, e dando loro qualche piccola dritta per far prima e meglio, chiese loro chi fosse la donna. Gli risposero che sapevano soltanto che si chiamava Achiropìta, e che solo da pochi giorni lavorava nel resort. Michele, che aveva fatto il liceo classico, sapeva che quel nome si riferiva a un ritratto “miracoloso” della Vergine, “non dipinto da mano umana”. Di più non riusci a sapere.
Si concentrò sul servizio, che fu, insieme naturalmente al resto delle portate, veramente splendido. Si riservò una mezza aragosta e convenne fra sé e sé, che era semplice e squisita, anche se lo Chef la definì soltanto discreta. Ma non c'era niente di cui stupirsi, sarebbe stato strano il contrario.
Quella sera, verso l'una, tornò nella sua cameretta, stanco, soddisfatto e soprattutto incuriosito. Come sempre succedeva faticò parecchio a prendere sonno, uno dei tanti segni di invecchiamento che lo torturavano.
La mattina dopo, avendo un'oretta libera, girò un po' per l'isola, cercando lì in giro qualche posticino tranquillo e riparato, per potersi fare un bagno in pace. Era giugno e non c'era ancora molto caldo, se mai su un'isola possa mai esserci quel caldo che si sente in continente. L'acqua era meravigliosa, e il fondo era visibile con nitore, e bellissimo. Un momento di pace col mondo come quello meritava una sigaretta, e che diamine! Se la accese, e anche se non era una Marlboro,la assaporò con piacere. “Lo so che fa male”, pensò.
Arrivò al lavoro con dieci minuti di anticipo, appena in tempo per vedere, non visto, lo Chef che, stupido aguzzino, si era imbarcato in una violenta reprimenda contro Achiropìta. Michele non capì per quale motivo, era troppo lontano. Sentiva solamente delle grida, e vedeva lo Chef brandire dei coltelli evidentemente non troppo lucenti. La donna stava zitta ma dagli occhi uscivano certe fiamme soltanto invisibili. Era ovvio che avesse un bisogno estremo di lavorare, altrimenti non sarebbe rimasta un minuto di più lì, e lo Chef si sarebbe trovato un orecchio in meno.
Dopo la sfuriata Michele si avvicinò alla donna, sentendo che quella avrebbe potuto essere una buona occasione per stabilire un contatto. Fra l'altro lui era un capopartita, ben riconoscibile nella sua divisa. “Potenza della gerarchia”, pensò.
“Non te la prendere, è solo un cretino. Cosa avresti combinato?”
La donna lo guardò con aria fiera ma ancora impaurita. “Dice che non ho lavato bene i coltelli, ma con questo sapone è il massimo che riesco a fare”. Achiropìta aveva sentito, con grande facilità, il passaggio di un fluido di “sim-patia”, che poi è il “soffrire insieme”, e la sua risposta era stata a un tempo spiegazione e richiesta di condivisione.
Potenza della comunicazione non verbale! Michele incominciò, sommessamente, a raccontarsi, con tutta la naturalezza di cui era capace, vista la situazione, e stette lì cinque minuti ancora; lei, continuando a lavare e china nella plonge, ascoltò, e non sembrava infastidita, solo ancora un po' sospettosa.
Michele si congedò con la scusa del lavoro, semplicemente. Riuscì a rubarle un mezzo sorriso, più degli occhi che della bocca, ma se ne stette, anzi, ne fu parecchio contento.
Il servizio del mezzogiorno e quello della sera andarono bene, come sempre la qualità della cucina dipende dall'eccellenza delle materie prime e lì erano veramente eccellenti. Ma la testa di Michele era altrove, affascinata da quella donna, mezza Giunone e mezza Minerva, e anche mezza Afrodite, se ne convinse.
Chissà cosa nascondeva dietro quegli occhi e soprattutto chissà che impressione lui le aveva suscitato.
Dopo una settimana di saluti cortesi ma formali, dovuti anche alla differenza di orari di lavoro, un pomeriggio Michele, nel suo giorno di festa, la aspettò alla fine del turno, soprattutto per vederla in abiti “civili”. Realizzò che era più bassa di lui, e che avrebbe potuto agevolmente passarle il braccio dietro la vita.
Achiropìta aveva un abitino di cotone stampato, di un colore leggermente più scuro del lillà, quasi un violetto, su cui spiccavano certe apine nere, variamente orientate. Il decolletè era ben esposto ma senza nessuna volgarità e l'orlo del vestito era appena sopra il ginocchio. Un vestitino estivo, non trasparente ma sottile, da cui si poteva facilmente capire ciò che vi era di sotto.
Era l'ora dell'happy hour e le disse, con una titubanza che solo lui sentì: “Verresti a bere qualcosa con me?”. Riuscì a sorprenderla e a imbarazzarla, anche se la sua carnagione olivastra gli impedì di vedere l'arrossimento. Non se lo sarebbe aspettato. Dopo un solo attimo di riflessione rispose, decisa, “Sì, ma alle sette devo andare a casa”. “Non c'è problema, anche io più tardi ho un impegno”, mentì Michele, con grande naturalezza.
Trovarono, a un dipresso dalla strada principale, un'attività commerciale pomposamente autodefinitasi “bar”, corrispondente a tre tavolini disposti in mezzo a due case, ciascuno con due seggiole impagliate, ma fra quelle due case c'era uno scorcio di mare talmente bello che non c'era proprio nessun bisogno dell'aperitivo.
Ma bevvero lo stesso, lei ordinò un bicchiere di Retsìna, lui, anche per farsi coraggio, un Metaxa col ghiaccio.
Entrambi erano affascinati dalla vista, soprattutto lei, che probabilmente non era nativa di Kos. Dopo qualche minuto, intenti a bere, Michele disse: “Allora, raccontami la tua vita in quest'ora che ci resta”. “Non è una gran bella vita da raccontare”, rispose lei. “E neanche lunga. Lavoro con quel personaggio orribile perchè non posso farne a meno. Sono di Bodrum, l'antica Alicarnasso e ho due figli, che ho dovuto affidare a mia madre. Devo mantenerli tutti e tre con il mio lavoro e, ti assicuro, alla fine del mese i soldi non mi bastano mai. Ma non sarà sempre così. Faccio la sguattera ma sono molto brava a fare il pane, me lo ha insegnato il fratello di mio padre. Quando potrò, aprirò un negozio soltanto mio, e venderò il miglior pane di tutta la città”.
Michele ascoltava, e beveva parole e Metaxa, avidamente. Gli occhi neri di lei si agitavano in continuazione e da essi sprigionavano la speranza e l'entusiasmo di un futuro più bello.
Era bello chiaccherare in quell'angolo tranquillo, con la luce della sera che scemava a poco a poco, e parimenti le luci dell'isola si accendevano una ad una.
Entrambi in cuor loro desideravano che il tempo rallentasse, e che quei momenti, dolcissimi, durassero almeno tutto il resto della loro vita. Quando furono le sette, marcate dal suono di una campana in lontananza, nessuno dei due vi fece caso, perchè in quel momento erano così vicini, e così bisognosi di avere qualcuno vicino, che non volevano interrompere quella piccola magìa.
Fu quindi naturale per Michele chiedere all'oste di portare qualcosa da mangiare, e per Achiropìta, bellezza non dipinta da mano umana, accettare quel muto invito a pranzo.
Dimenticò per un'oretta di essere cuoco, e le dolmàdes, involtini di foglie di vite, e la moussakà furono ancora meglio delle sue aragoste.
Quando fu troppo tardi, anche per quel bar, si congedarono con tanti ringraziamenti e una mancia principesca, per quell'oste che era stato il loro involontario Cupido.
Ritornarono al resort, abbracciati, come lui si era figurato solo qualche ora prima, e lei, sentendo il suo braccio stringerla forte, ne provava una sensazione di grande pace.
Trascorsero la notte insieme e Michele capì compiutamente la bellezza di affondare la testa fra i suoi lunghi capelli. Sopratutto riuscì, come mai era successo prima, a svuotare completamente la sua testa, a non pensare più a nulla se non a sentire il battito del cuore di lei, divenuto sincrono al suo. Lei non aveva mai incontrato un uomo così, del quale anche solo l'abbraccio le colmava il cuore.
Non fu una notte da diciottenni, fu una notte così dolce che a diciotto anni non si riesce neanche a immaginare.
La mattina presto, impaurita dall'essersi donata così totalmente a un estraneo, ma che estraneo non si era dimostrato, e per così dire “chiamata” dalla brezza di terra, Achiropìta si vesti in fretta e, senza neanche un bacio, fuggì nelle viuzze di Kos, spaventata dalla felicità.
Anche lui era sveglio ma fece finta di dormire. In quel momento non avrebbe trovate le parole, se mai ve ne fossero state".

5.1.2012