Andiamo a incominciare

Basta fare un giro al mercato.
Già gli occhi si riempiono di colori, colori di pomodori e peperoni, caldi, rossi e carnosi come certe labbra che si offrono senza vergogna, ma anche caldi come il giallo di pani appena sfornati, sotto la cui crosta si indovina una tenerezza nuova.
E la verdura? ci offre tutte le tonalità dei verdi, che raccontano sommessamente di prati e di orti, innaffiati da uomini tranquilli in maniche di camicia, durante silenziosi tramonti.
Come si fa a non amare il cibo? Semplice, basta non amare gli umani.

euge scrive.......


PADRI E FIGLI, OVVERO AGGIUSTARE LE COSE TARDI MA BENINO.

E' solo per caso, uno di quei casi che sembrano governati da una mano altrui e misteriosa, che una di quelle due o tre cose significative della tua vita si chiariscono in un attimo, e come per l'effetto di un lampo di luce leggi con chiarezza dentro te stesso tramite un altro, con cui condividi qualcosa......

Hai delle cose nella vita che ogni volta che ti passano per la mente il cuore si gonfia improvvisamente di lacrime che devono uscire con grande forza, e sono cose apparentemente banali, che per altri non hanno tutto questo grande significato, e che non tutti capiscono anche quando gliele spieghi, ma forse perché tu stesso non sei capace a spiegarle bene. Ecco perché hai deciso di scriverle, per spiegarle meglio e per trovare qualcuno che le capisca.

Dài che si parte, ma bisogna prenderla alla lontana.
Eduardo De Filippo, che da qui in avanti chiamerò semplicemente E., nasce il 1900 e scrive la sua prima commedia, “Farmacia di turno”, a vent'anni, e nel 1931 ha già una sua compagnia teatrale.

Filumena Marturano la scrive nel 1946, subito dopo quella guerra che noi per fortuna abbiamo vissuto solo nei racconti delle nostre famiglie, che comunque  abbiamo imparato bene.
[La versione a cui faccio riferimento è quella recitata da lui stesso con Regina Bianchi, nell'edizione televisiva che è diventata di universale distribuzione in cassette e DVD].

La storia è presto detta: Filumena, anche se prostituta, ha allevato per lunghi anni tre figli, di nascosto dal suo amante “fisso”, Domenico Soriano, e per convincerlo a sposarla gli dice che uno dei tre giovani è davvero suo figlio, cosa che lo scompensa di brutto.
Filumena sarà capace di spiegargli, con grande pazienza, il significato della paternità.

All'inizio del terzo atto Domenico, “prova”, senza tanta convinzione, a parlare ai tre giovani, spiegando che, dato che da lì a poco sposerà la loro mamma, e non solo (“ho già preso l'appuntamento con l'avvocato per la pratica che vi riguarda. Domani vi chiamerete come me, Soriano...”) gli “piacerebbe” che non lo chiamassero più Don Domenico..... la risposta dei tre non è solo negativa, è anche molto dura (“Certe cose... bisogna sentirle dentro”).
Domenico, con grande eleganza, sorvola e cambia discorso: ha quasi imparato la lezione di Filumena e a questi tre ragazzi ci tiene davvero, ha la delicatezza di non insistere.

Ecco, non passano che due pagine, devo citarlo testualmente:
.................
DOMENICO (si alza dal tavolo e guarda tutti lungamente. Poi, come una decisione immediata) Lasciammo sta' 'e cose comme stanno, e ognuno va p' 'a strada soia... (ai ragazzi) Io vi devo parlare... (Tutti attendono sospesi). Sono un galantuomo e non mi sento di ingannarvi. Stateme a sentì...
I TRE Sì, papà!
DOMENICO (commosso, guarda Filumena e decide)
….............

Con un colpo di teatro formidabile E. dà la voce al cuore dei personaggi, che prorompe con naturalezza al di sopra e al di là di tutte le parole che erano già state dette.

Fin qui, cara lettrice e caro lettore, non ci sarebbe niente di che, nel senso che questo colpo di teatro può essere più o meno commovente a seconda di cosa ci portiamo dentro, e cioè di come è stata la nostra relazione con il padre, e se abbiamo risolto certi conflitti oggi non più risolvibili con la presenza.

Ma c'è di più, molto di più.
C'è una storia che ho letto per caso e che spiega bene cosa ci poteva essere nel cuore di E. quando ha scritto queste righe.

La mamma dei tre fratelli De Filippo era la figlia del fratello della moglie di Eduardo Scarpetta, famoso attore e scrittore napoletano, nato nel 1853, famoso anche per il numero dei figli che ha avuto, perché gli piacevano le donne e perché pensava, dico io, che avere tanti figli da tante donne fosse una bella cosa, che ti dava lustro.
E probabilmente, in questa famiglia allargata e famosa, i ragazzi venivano anche educati in qualche modo.

La notizia che però ha scatenato le mie fantasie è che i figli nati fuori dal matrimonio, così come E., lo potevano chiamare soltanto “zio”.
E dàai, questo no! Non lo capisco, e non riesco ad accettarlo.
Me lo figuro, questo ragazzo, che adolescente scopre chi è il padre ma non lo può neanche chiamare “papà”.
Un bocconcino di m. niente male da digerire, cento anni fa come adesso.

Ecco che allora E., quando è grande, (ma non prima di aver fatto passare vent'anni dalla morte di Scarpetta, prima non ce la fa proprio...) mette questo padre nella commedia, dentro un personaggio che gli assomiglia tanto, anzi, calca anche un po' la mano facendolo forse peggiore, e si vendica gelidamente, rappresentandolo mentre è lui che  chiede di essere chiamato “Papà”, a figli che gli oppongono un netto rifiuto.
Brutta m., questa volta te l'ho fatta pagare....., davanti a tutti!

Ma questa vendetta (come tutte le vendette) ha un sapore cattivo, e lascia in bocca solo un gusto di polvere da sparo, e la guerra non piace a nessuno.
Tanto meno a E., che il rapporto con il padre non l'ha risolto, è morto quando lui aveva 25 anni: sì, la vendetta andrà anche bene però è anche vero che ognuno di noi cerca un po' di serenità.....
Non passano che poche righe che a questo padre, che si sarebbe anche già fatto una ragione del rifiuto, viene regalata, con un atto di amore gratuito, perché non meritato, la tanto agognata parola, che non rappresenta più la mera condivisione del DNA ma invece è il simbolo dell'accogliere e dell'essere accolti, che è il fine della nostra vita.

Queste due paginette ovviamente non vogliono e non possono essere una nota di critica letteraria,  piuttosto una riflessione, da medico (e cioè da quotidiano frequentatore  di umanità malata non solo nel corpo) su quanto certe cose, apparentemente irrilevanti, possano aiutarci a capire noi stessi.