Andiamo a incominciare

Basta fare un giro al mercato.
Già gli occhi si riempiono di colori, colori di pomodori e peperoni, caldi, rossi e carnosi come certe labbra che si offrono senza vergogna, ma anche caldi come il giallo di pani appena sfornati, sotto la cui crosta si indovina una tenerezza nuova.
E la verdura? ci offre tutte le tonalità dei verdi, che raccontano sommessamente di prati e di orti, innaffiati da uomini tranquilli in maniche di camicia, durante silenziosi tramonti.
Come si fa a non amare il cibo? Semplice, basta non amare gli umani.

giovedì 26 gennaio 2012

KOS - 2


Achiropìta scendeva lentamente la stradina che dal resort portava al porto vecchio, lastricata di piccoli ciottoli bianchi, resi lisci dal tempo. Camminava lentamente, misurando un passo dopo l'altro, seguendo con la mente certi suoi disegni che indovinava nelle linee fra i sassi, i margini dei quali non voleva assolutamente calpestare.
Questo la aiutava a svuotare la mente completamente, così come quando lavava montagne di piatti, e quella mattina anche a concentrarsi su un unico pensiero.
Si domandava il senso di quello che era successo, e soprattutto il fine, ma non riusciva a trovare risposta. Era profondamente impaurita dal fatto di essersi abbandonata completamente, anche se solo per qualche ora: aveva ancora addosso tutte le cicatrici del passato, quando, sempre sbagliando, si era immaginata di avere finalmente trovato la sua mezza mela, e aveva preso certe sonorissime facciate il cui rimbombo le era ancora nelle orecchie. Tutte quelle cicatrici non sarebbero andate più via, e la più recente addirittura colava ancora alcune gocce di sangue.
Non se la sentiva proprio di rimettersi in gioco, troppo era stato il dolore e poca , e breve, la gioia. Fra l'altro c'era tutto il resto, i figli soprattutto, quel miserabile ma necessario lavoro e quel meraviglioso sogno che accarezzava ogni sera prima di addormentarsi, quello di un forno tutto suo.
D'altro canto quell'uomo era riuscito ad incantarla. Non solo la sua vicinanza era piacevole da morire, e le storie che raccontava erano magicamente trasfigurate nelle sue parole, ma essergli accanto le dava tranquillità e fiducia nel futuro, sensazioni che non aveva fino ad allora conosciuto. Mai le era successo di cedere al primo appuntamento, anche se spesso era stata lei a decidere l'intimità. Ma iersera tutto era stato diverso.
Camminava e pensava, assorta, fino a che un ciottolo più sporgente degli altri non la fece scivolare, cadendo per fortuna sulla parte più morbida e strappandole un piccolo sorriso.
Decise improvvisamente che sarebbe andata da Maia. C'era solo qualche rampa di scale da fare e poi sarebbe arrivata.
Maia era la donna con il terzo occhio, e più di una volta l'aveva aiutata a capire cosa aveva dentro il cuore. Di lei nessuno sapeva nulla se non il posto dove abitava, che era casa e studio a un tempo, e anche punto di appoggio per gatti randagi bisognosi di cure. Maia era una donna senza età, con il viso come quello delle Sibille della cappella Sistina, solcato dalla vita, ma principalmente dai racconti delle vite degli altri. Faceva le carte, solo agli amici, e barattava la sua conoscenza del futuro per un po' di cibo per gatti. Ma soprattutto aveva le parole giuste per spingerti a percorrere il tuo destino. Anche lei faceva parte del mito, del resto come tutto in quell'isola della Grecia.
Achiropìta entrò e subito fu prese alla gola da un odore vagamente dolciastro, quell'odore della carne troppo frollata, quella che Maia dava ai suoi gatti.
“Ti aspettavo”, si sentì dire da dietro una tenda, ed ebbe subito un tuffo al cuore. Era tanto che non andava da Maia e già questo era per lei un segno che qualcosa sarebbe successo, così come era la più lampante dimostrazione che Maia aveva davvero il terzo occhio.
“Come stai, piccola mia?” Maia le venne incontro a braccia aperte, con una gatta dolcemente agganciata alle sue spalle. “Ciao Maia, sai che quando vengo da te è perchè non sto bene”, “lo so bene, siediti che ci beviamo un ouzo, quello che mi mandano da Lesbo, poi mi racconterai”.
Intanto che beveva lucidava le idee su quell'uomo e su quello che avrebbe raccontato, e per un attimo si domandò se aveva fatto bene ad andare lì, o se non fosse stato meglio non pensarci più, da subito. Ma era seduta lì e Maia non era solo la donna dal terzo occhio, era per lei quasi una madre, e le voleva un bene dell'anima. Achiropìta non aveva conosciuto la mamma, fuggita subito dopo il parto, e crescere solo con il padre era stato difficile, anche se c'era in qualche modo riuscita, ma non come come avrebbe voluto che fosse.
Incominciò allora a raccontare di quell'uomo, del loro primo incontro, e di come il suo parlare, forse un po' troppo da signore, l'avesse colpita. Non l'aveva facilmente dimenticato e nei giorni successivi l'aveva guardato da lontano, per capire che tipo potesse essere, senza peraltro capire, perchè sul lavoro era efficiente e irreprensibile. Si capiva che cucinava animato da una grande passione, e tutte le cose che preparava, anche lei era riuscita ad assaggiare qualcosa, avevano il sapore dell'amore che ci aveva messo nel cucinarle. Anche nel rapporto con i suoi sottoposti era certamente strano: vi erano giorni in cui sembrava che fossero amiconi e le battute e le risate si sprecavano, vi erano poi dei giorni in cui la luna sembrava avere modificato irrimediabilmente il suo atteggiamento, immotivatamente immusonito e triste. Terribile questa luna, che anche a lei faceva spesso l'effetto di svegliarsi una mattina con una tristezza salata dentro il cuore di cui non riusciva a liberarsi.
Le raccontò anche di come fosse rimasta sorpresa, perchè non se lo sarebbe mai aspettato, quando lui le chiese di prendere l'aperitivo insieme e di come, per proteggersi, gli avesse detto che non poteva stare oltre le sette, quando invece non aveva niente da fare. E di come era stata bene, su quella seggiola traballante, e soprattutto di come era stato facile aprirsi con lui e parlare liberamente, cosa che non succedeva da troppo tempo. La sensazione di leggerezza l'aveva aiutata a decidere, e quando lui le aveva cinto la vita con il braccio aveva avuto un sussulto di gioia. Non dimenticò di dire che avevano passato la notte insieme, ma si rese conto che Maia lo sapeva già.
Maia la guardava raccontare e gesticolare animatamente, e quel pulcino dalla testa nera sempre arruffata le faceva, ogni volta che la incontrava, grande tenerezza. Le voleva bene e non voleva proprio che soffrisse ancora: sapeva però che Achiropìta aveva la testa dura più del marmo, e che se avesse deciso di iniziare una nuova storia nulla e nessuno l'avrebbe distolta, anche a costo di andare incontro alla propria rovina. Quest'uomo poi la incuriosiva: mai Achiropìta era stata così precisa e entusiasta nel descriverle qualcuno.
Capì che avrebbe dovuto, in caso di cattive notizie, aggiustare quello che le avrebbero detto le carte.
Sparecchiato il tavolino incominciò a mescolare le carte, puntigliosamente come al solito, dedicando a quell'attività tutto il tempo che riteneva necessario, con lentezza, sempre con la stessa sequenza di movimenti. Quel mazzo di tarocchi, ingiallito e quasi ammuffito, le era stato regalato da una zingara serba, di ritorno dalla festa delle Saintes Maries de la Mer, che aveva intuito che entrambe condividevano il terzo occhio.
Non era semplice fare le carte, soprattutto quando in esse leggeva cose così brutte da farla stare male: infatti iniziare a farle ad Achiropìta le procurò un doloroso crampo allo stomaco.
Ciò non ostante incominciò, anche perchè la donna era curiosa e ansiosa.
Anche se era venerdì, giorno perfetto per quell'attività, la lettura delle carte si rivelò da subito difficile. E' ovvio che Maia non avrebbe mai potuto dire “E' l'uomo giusto” ma Achiropìta si sarebbe almeno aspettata un piccolo incoraggiamento. Non ottenne neppure quello. Anzi la carta dell'appeso fu quella che comparve più frequentemente, dimostrando in un certo qual modo che per capire l'essenza di una relazione bisogna guardarla a rovescio. Achiropìta sperava ardentemente, in cuor suo, di vedere la carta degli amanti, che non volle invece uscire. Gli occhi le si stavano allagando e capiva solo a tratti la voce di Maia, che le diceva che le cose erano ancora ferme, e che le carte non riuscivano a penetrare nei loro cuori.
Uscì salutando in fretta, profondamente delusa, e trovandosi al punto di partenza. Erano le dieci e e si sentiva di schifo. Capì che non era solo la delusione, era anche fame.
Decise di andare da Irene, una sua amica, disordinata dell'amore come lei, con la quale avrebbe potuto confidarsi.
La trovò nel suo kafenion dalle porte dipinte di azzurro, con le fotografie ingiallite dei parenti appese alle pareti alternate a immagini sacre. C'erano anche due vecchi seduti ai tavoli, così immobili da sembrare impietriti dall'età.
Irene era stata una donna bellissima, ardente nell'espressione, con due lanterne azzurre splendenti al posto degli occhi, incorniciate da una capigliatura biondissima, che tradiva piuttosto un'origine nordica, o meglio normanna. I disagi della vita e le scelte sbagliate l'avevano fatta invecchiare prima del dovuto, sotto il biondo il grigio si indovinava soltanto, e la prolungata esposizione al sole giustificava e mascherava i solchi profondi del viso. Ma restava una donna dolcissima, specie per Achiropìta. Si erano conosciute da pochi anni, casualmente, mentre facevano la spesa al mercato, ed erano diventate subito amiche. Non potevano vedersi spesso ma fra loro si era creata un'intimità profonda, e alla prima occhiata Irene capì che la sua amica aveva un problema. Dopo averla abbracciata e ricambiato il suo bacio la fece sedere comoda e le portò un caffè e un piattino di melomakàrona, ben sapendo quanto lei fosse golosa di quei dolcetti.
Dopo aver divorato i primi due dolci incominciò a raccontare, per la seconda volta quella mattina, la sua ultima avventura. Irene sorrideva, e si vedeva chiaramente che era contenta per lei.
“Segui il tuo cuore, Chiropì”, le disse, “cerca di rubare tutta la felicità che puoi, datti tutta e prendi tutto. Non lasciare niente di tutto ciò che puoi prendere e non avrai rimpianti. Se quest'uomo è veramente come dici ti prego di non farmelo neanche conoscere, ché te lo ruberei”. E rise forte, facendo sussultare le due statue di pietra.
Irene aveva capito tutto, e Achiropìta fu confermata, se mai ve ne fosse stato bisogno, nella sua intenzione di non lasciarsi scappare quella che riteneva, a torto o a ragione, l'ultima,e la migliore occasione.
Non aveva più paura.



Nessun commento:

Posta un commento