Achiropìta scendeva
lentamente la stradina che dal resort portava al porto vecchio,
lastricata di piccoli ciottoli bianchi, resi lisci dal tempo.
Camminava lentamente, misurando un passo dopo l'altro, seguendo con
la mente certi suoi disegni che indovinava nelle linee fra i sassi, i
margini dei quali non voleva assolutamente calpestare.
Questo la aiutava a
svuotare la mente completamente, così come quando lavava montagne di
piatti, e quella mattina anche a concentrarsi su un unico pensiero.
Si domandava il senso di
quello che era successo, e soprattutto il fine, ma non riusciva a
trovare risposta. Era profondamente impaurita dal fatto di essersi
abbandonata completamente, anche se solo per qualche ora: aveva
ancora addosso tutte le cicatrici del passato, quando, sempre
sbagliando, si era immaginata di avere finalmente trovato la sua
mezza mela, e aveva preso certe sonorissime facciate il cui rimbombo
le era ancora nelle orecchie. Tutte quelle cicatrici non sarebbero
andate più via, e la più recente addirittura colava ancora alcune
gocce di sangue.
Non se la sentiva proprio
di rimettersi in gioco, troppo era stato il dolore e poca , e breve,
la gioia. Fra l'altro c'era tutto il resto, i figli soprattutto, quel
miserabile ma necessario lavoro e quel meraviglioso sogno che
accarezzava ogni sera prima di addormentarsi, quello di un forno
tutto suo.
D'altro canto quell'uomo
era riuscito ad incantarla. Non solo la sua vicinanza era piacevole
da morire, e le storie che raccontava erano magicamente trasfigurate
nelle sue parole, ma essergli accanto le dava tranquillità e fiducia
nel futuro, sensazioni che non aveva fino ad allora conosciuto. Mai
le era successo di cedere al primo appuntamento, anche se spesso era
stata lei a decidere l'intimità. Ma iersera tutto era stato diverso.
Camminava e pensava,
assorta, fino a che un ciottolo più sporgente degli altri non la
fece scivolare, cadendo per fortuna sulla parte più morbida e
strappandole un piccolo sorriso.
Decise improvvisamente
che sarebbe andata da Maia. C'era solo qualche rampa di scale da fare
e poi sarebbe arrivata.
Maia era la donna con il
terzo occhio, e più di una volta l'aveva aiutata a capire cosa aveva
dentro il cuore. Di lei nessuno sapeva nulla se non il posto dove
abitava, che era casa e studio a un tempo, e anche punto di appoggio
per gatti randagi bisognosi di cure. Maia era una donna senza età,
con il viso come quello delle Sibille della cappella Sistina, solcato
dalla vita, ma principalmente dai racconti delle vite degli altri.
Faceva le carte, solo agli amici, e barattava la sua conoscenza del
futuro per un po' di cibo per gatti. Ma soprattutto aveva le parole
giuste per spingerti a percorrere il tuo destino. Anche lei faceva
parte del mito, del resto come tutto in quell'isola della Grecia.
Achiropìta entrò e
subito fu prese alla gola da un odore vagamente dolciastro,
quell'odore della carne troppo frollata, quella che Maia dava ai suoi
gatti.
“Ti aspettavo”, si
sentì dire da dietro una tenda, ed ebbe subito un tuffo al cuore.
Era tanto che non andava da Maia e già questo era per lei un segno
che qualcosa sarebbe successo, così come era la più lampante
dimostrazione che Maia aveva davvero il terzo occhio.
“Come stai, piccola
mia?” Maia le venne incontro a braccia aperte, con una gatta
dolcemente agganciata alle sue spalle. “Ciao Maia, sai che quando
vengo da te è perchè non sto bene”, “lo so bene, siediti che ci
beviamo un ouzo, quello che mi mandano da Lesbo, poi mi racconterai”.
Intanto che beveva
lucidava le idee su quell'uomo e su quello che avrebbe raccontato, e
per un attimo si domandò se aveva fatto bene ad andare lì, o se non
fosse stato meglio non pensarci più, da subito. Ma era seduta lì e
Maia non era solo la donna dal terzo occhio, era per lei quasi una
madre, e le voleva un bene dell'anima. Achiropìta non aveva
conosciuto la mamma, fuggita subito dopo il parto, e crescere solo
con il padre era stato difficile, anche se c'era in qualche modo
riuscita, ma non come come avrebbe voluto che fosse.
Incominciò allora a
raccontare di quell'uomo, del loro primo incontro, e di come il suo
parlare, forse un po' troppo da signore, l'avesse colpita. Non
l'aveva facilmente dimenticato e nei giorni successivi l'aveva
guardato da lontano, per capire che tipo potesse essere, senza
peraltro capire, perchè sul lavoro era efficiente e irreprensibile.
Si capiva che cucinava animato da una grande passione, e tutte le
cose che preparava, anche lei era riuscita ad assaggiare qualcosa,
avevano il sapore dell'amore che ci aveva messo nel cucinarle. Anche
nel rapporto con i suoi sottoposti era certamente strano: vi erano
giorni in cui sembrava che fossero amiconi e le battute e le risate
si sprecavano, vi erano poi dei giorni in cui la luna sembrava avere
modificato irrimediabilmente il suo atteggiamento, immotivatamente
immusonito e triste. Terribile questa luna, che anche a lei faceva
spesso l'effetto di svegliarsi una mattina con una tristezza salata
dentro il cuore di cui non riusciva a liberarsi.
Le raccontò anche di
come fosse rimasta sorpresa, perchè non se lo sarebbe mai aspettato,
quando lui le chiese di prendere l'aperitivo insieme e di come, per
proteggersi, gli avesse detto che non poteva stare oltre le sette,
quando invece non aveva niente da fare. E di come era stata bene, su
quella seggiola traballante, e soprattutto di come era stato facile
aprirsi con lui e parlare liberamente, cosa che non succedeva da
troppo tempo. La sensazione di leggerezza l'aveva aiutata a decidere,
e quando lui le aveva cinto la vita con il braccio aveva avuto un
sussulto di gioia. Non dimenticò di dire che avevano passato la
notte insieme, ma si rese conto che Maia lo sapeva già.
Maia la guardava
raccontare e gesticolare animatamente, e quel pulcino dalla testa
nera sempre arruffata le faceva, ogni volta che la incontrava, grande
tenerezza. Le voleva bene e non voleva proprio che soffrisse ancora:
sapeva però che Achiropìta aveva la testa dura più del marmo, e
che se avesse deciso di iniziare una nuova storia nulla e nessuno
l'avrebbe distolta, anche a costo di andare incontro alla propria
rovina. Quest'uomo poi la incuriosiva: mai Achiropìta era stata così
precisa e entusiasta nel descriverle qualcuno.
Capì che avrebbe dovuto,
in caso di cattive notizie, aggiustare quello che le avrebbero detto
le carte.
Sparecchiato il tavolino
incominciò a mescolare le carte, puntigliosamente come al solito,
dedicando a quell'attività tutto il tempo che riteneva necessario,
con lentezza, sempre con la stessa sequenza di movimenti. Quel mazzo
di tarocchi, ingiallito e quasi ammuffito, le era stato regalato da
una zingara serba, di ritorno dalla festa delle Saintes Maries de la
Mer, che aveva intuito che entrambe condividevano il terzo occhio.
Non era semplice fare le
carte, soprattutto quando in esse leggeva cose così brutte da farla
stare male: infatti iniziare a farle ad Achiropìta le procurò un
doloroso crampo allo stomaco.
Ciò non ostante
incominciò, anche perchè la donna era curiosa e ansiosa.
Anche se era venerdì,
giorno perfetto per quell'attività, la lettura delle carte si rivelò
da subito difficile. E' ovvio che Maia non avrebbe mai potuto dire
“E' l'uomo giusto” ma Achiropìta si sarebbe almeno aspettata un
piccolo incoraggiamento. Non ottenne neppure quello. Anzi la carta
dell'appeso fu quella che comparve più frequentemente, dimostrando
in un certo qual modo che per
capire
l'essenza di una relazione bisogna guardarla a rovescio.
Achiropìta
sperava ardentemente, in cuor suo, di vedere la carta degli amanti,
che non volle invece uscire. Gli occhi le si stavano allagando e
capiva solo a tratti la voce di Maia, che le diceva che le cose erano
ancora ferme, e che le carte non riuscivano a penetrare nei loro
cuori.
Uscì salutando in
fretta, profondamente delusa, e trovandosi al punto di partenza.
Erano le dieci e e si sentiva di schifo. Capì che non era solo la
delusione, era anche fame.
Decise di andare da
Irene, una sua amica, disordinata dell'amore come lei, con la quale
avrebbe potuto confidarsi.
La trovò nel suo
kafenion dalle porte dipinte di azzurro, con le fotografie
ingiallite dei parenti appese alle pareti alternate a immagini sacre.
C'erano anche due vecchi seduti ai tavoli, così immobili da sembrare
impietriti dall'età.
Irene era stata una donna
bellissima, ardente nell'espressione, con due lanterne azzurre
splendenti al posto degli occhi, incorniciate da una capigliatura
biondissima, che tradiva piuttosto un'origine nordica, o meglio
normanna. I disagi della vita e le scelte sbagliate l'avevano fatta
invecchiare prima del dovuto, sotto il biondo il grigio si indovinava
soltanto, e la prolungata esposizione al sole giustificava e
mascherava i solchi profondi del viso. Ma restava una donna
dolcissima, specie per Achiropìta. Si erano conosciute da pochi
anni, casualmente, mentre facevano la spesa al mercato, ed erano
diventate subito amiche. Non potevano vedersi spesso ma fra loro si
era creata un'intimità profonda, e alla prima occhiata Irene capì
che la sua amica aveva un problema. Dopo averla abbracciata e
ricambiato il suo bacio la fece sedere comoda e le portò un caffè
e un piattino di melomakàrona, ben sapendo quanto lei fosse golosa
di quei dolcetti.
Dopo aver divorato i
primi due dolci incominciò a raccontare, per la seconda volta quella
mattina, la sua ultima avventura. Irene sorrideva, e si vedeva
chiaramente che era contenta per lei.
“Segui il tuo cuore,
Chiropì”, le disse, “cerca di rubare tutta la felicità che
puoi, datti tutta e prendi tutto. Non lasciare niente di tutto ciò
che puoi prendere e non avrai rimpianti. Se quest'uomo è veramente
come dici ti prego di non farmelo neanche conoscere, ché te lo
ruberei”. E rise forte, facendo sussultare le due statue di pietra.
Irene aveva capito tutto,
e Achiropìta fu confermata, se mai ve ne fosse stato bisogno, nella
sua intenzione di non lasciarsi scappare quella che riteneva, a torto
o a ragione, l'ultima,e la migliore occasione.
Non aveva più paura.
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